Dopo 10 anni dal suo arrivo in carcere, l’assassino della contessa Alberica Filo della Torre è libero di tornare a casa, si sfoga il figlio della nobildonna “il sistema giudiziario è indegno”
Manfredi Mattei, figlio della contessa Alberica Filo della Torre uccisa nel 1991 nella sua villa all’Olgiata, quartiere molto ricco e prestigioso a Nord di Roma, ad un giorno dalla scarcerazione dell’assassino della madre attacca la giustizia italiana nel suo complesso e commenta l’accaduto durante un’intervista al Corriere della Sera. La sua tragedia inizia quando aveva solo 9 anni e si è visto portare via la madre Alberica da Manuel Winston Reyes, il maggiordomo. Manfredi ci tiene a precisare che quell’uomo, l’uomo che ha ucciso la madre strangolandola e colpendola ferocemente con uno zoccolo quel 10 luglio del 1991, in realtà non era un maggiordomo della famiglia ma un semplice operaio che era stato licenziato da poco e per questo cercava la sua vendetta. Non prova rabbia nei confronti di quell’uomo Manfredi, che ritiene un “poveraccio”, se la prende piuttosto con il sistema giudiziario nel suo complesso che ritiene “indegno, incapace di fare giustizia e tutelare il cittadino”.
“Più che rabbia provo rammarico, delusione, sconforto: si assiste sempre al solito sistema dove alla fine nessuno paga o se paga lo fa in modo irrisorio. Roma è una città grande ma può essere anche molto piccola. Se mi dovesse capitare di incontrare Manuel Winston Reyes, l’assassino di mia madre, gli farei i complimenti per avere preso per i fondelli tutti. Per essere riuscito a vivere da uomo libero per oltre 20 anni, per essersi fatto una famiglia e avere dato il nome di mia madre a sua figlia“
Dal giorno dell’assassinio alla condanna, inizialmente fissata a 16 anni poi diminuita a 10 per buona condotta e attenuanti varie, sono passati ben 20 anni, e inizialmente l’accusa si era concentrata non su di lui, anche se effettivamente Manuel aveva un movente molto forte per agire, ma sul costruttore Pietro Mattei il marito di Alberica. “Mio padre subì un’autentica persecuzione: gli interrogatori bruschi, i sorrisetti, le allusioni ad amanti inesistenti” ha commentato Manfredi; secondo il figlio 39enne della donna le prove a carico di Reyes c’erano sin dall’inizio ma la magistratura non ha voluto darci peso, e parla di una intercettazione telefonica in cui l’assassino chiedeva ad un ricettatore in che modo piazzare i gioielli della contessa “Era una prova regina fin da subito. Ma incredibilmente il testo della conversazione, mentre sui giornali si sparavano le ipotesi più fantasiose, non era stato né sbobinato né tradotto”. L’inchiesta era stata chiusa qualche tempo fa per mancanza di nuove piste, poi grazie alle richieste insistenti del padre di Manfredi era stato riaperto per svolgere nuove analisi del DNA, favorite anche dal miglioramento della tecnologia forense. Dalle analisi era stata confermata la presenza del DNA di Reyes sul lenzuolo usato per avvolgere il corpo della donna e il Rolex della contessa.
Nonostante le prove schiaccianti a carico di Reyes, l’uomo venne condannato ad una pena piuttosto mite, e vederlo uscire dal carcere di Rebibbia addirittura 6 anni prima della fine della pena ha provocato un senso di sconforto e rabbia nei parenti della vittima. A fare da portavoce l’avvocato Giuseppe Marazzita che pur riconoscendo la possibilità prevista dal nostro sistema giudiziario di diminuire la pena di un condannato dopo che quest’ultimo ne ha scontata più della metà, rimane comunque convinto della grande ingiustizia nei confronti della famiglia e afferma “Se quest’uomo non fosse stato condannato 20 anni dopo i fatti, da un lato non si sarebbe prescritto uno dei reati, la rapina aggravata ragione dell’omicidio, e dall’altro la pena sarebbe stata più severa, perché si giudicava una persona che aveva appena commesso un omicidio, non una persona che lo aveva commesso in gioventù e nel frattempo aveva avuto un percorso di vita diverso”.