Niente mascherine e distanziamento difficile: perché bar e ristoranti sono luoghi a rischio Covid

Diversi studi evidenziano come, per via della loro natura conviviale, bar e ristoranti siano tra i luoghi pubblici a più alto rischio di contagio. 

Perché bar e ristoranti sono luoghi a rischio Covid
Marco Di Lauro/Getty Images/Archivio

Il tema è di quelli sempre al centro della discussione politica: la riapertura serale di bar e ristoranti – e più in generale la concessione di regole più morbide per far tornare a lavoro queste attività – scalda animi e dibattiti e occupa buona parte della scena, nonostante vi siano altri settori – pensiamo a palestre e piscine, ma anche a tutto il comparto dello spettacolo, della cultura e dell’organizzazione di eventi – costretti a chiusure praticamente dall’inizio della crisi pandemica, un anno fa. Eppure le restrizioni imposte alle attività di somministrazione – e le proteste chi in queste attività ha investito – tendono ad avere maggiore risalto rispetto ad altre, altrettanto sfortunate, categorie di lavoratori.

In molti, anche tra le forze politiche, con il cambio di Governo sono tornati a spingere affinché bar e ristoranti possano tornare ad aprire anche di sera, sulla scorta di un ragionamento – che, come minimo, tende un po’ a semplificare la situazione – secondo il quale “se si può mangiare fuori in sicurezza a pranzo, allora lo si può fare anche a cena“. D’altra parte è innegabile come le prolungate chiusure stiano danneggiando in maniera pesantissima un settore cruciale nel nostro sistema economico, con il rischio, per giunta, di una consegnare molte di queste attività – strozzate da condizioni economiche ormai insostenibili – al mondo della criminalità organizzata.

Ma quali sono le ragioni per cui, a detta di gran parte del mondo scientifico, questo tipo di locali è considerato tra i luoghi pubblici a più alto rischio Covid? Utile, in questo senso, è uno studio pubblicato su Jama dal Covid-19 Response team dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC) degli Stati Uniti, che, sulla base di una serie di studi caso-controllo, evidenzia il livello di rischio che si può associare a diversi contesti della vita quotidiana.  Le ricerche svolte hanno utilizzato un gruppo di confronto per identificare quali sono le attività più rischiose: sotto la guida dell’epidemiologa Kiva Fisher, sono state poste a confronto le abitudini – come, ad esempio, indossare la mascherina e svolgere attività nella comunità – di 314 persone, di cui 154 positive e 160 negative al Coronavirus.

Dalla ricerca, successivamente pubblicata su Morbidity and Mortality Weekly Report, è emerso come esista un’associazione tra l’infezione da Coronavirus e lo svolgimento di determinate attività, tra le quali mangiare nei ristoranti e frequentare bar e caffetterie: le persone positive al tampone, infatti, avevano più del doppio delle probabilità di essersi recate in luoghi pubblici dove si consumano cibi e bevande.

D’altra parte, alcuni elementi appaiono di tutta evidenza: mangiare e bere sono attività che, per forza di cose, si svolgono senza indossare le mascherine. Per di più, rappresentando nella gran parte dei casi pranzi e cene momenti di convivialità e socialità, vicinanza, confronti, discussioni sono all’ordine del giorno. Se tutto questo avviene all’interno di locali chiusi – in cui non sempre è possibile garantire la necessaria areazione – l’eventuale presenza di un positivo, magari asintomatico – fa sì che attraverso il droplet il virus rimanga in circolazione all’interno del locale, rischiando di infettare alcuni dei presenti. Il tutto nonostante la buona volontà – che non si può non riconoscere a molti dei gestori di bar e ristoranti – nel rispettare le norme sul distanziamento tra gli avventori.

“Ciò che accomuna queste attività è che sono incompatibili con l’uso della mascherina quando si mangia o si beve, comportano un’esposizione prolungata e intensa ad altre persone che potrebbero essere infette e potenzialmente asintomatiche, e durante le quali può essere difficile mantenere il distanziamento interpersonale“, evidenziano gli esperti.

Un quadro di informazioni che permette ai ricercatori di “identificare comportamenti o attività associate a un aumento del rischio di contagio e possono essere utilizzati per focalizzare le strategie di contrasto e informare correttamente le persone“. Ma la ricerca e l’analisi generale dei comportamenti da tenere – o da evitare – devono essere, concludono gli scienziati, “continuamente rivalutate durante la pandemia, anche durante le campagne di vaccinazione, adattando le strategie di prevenzione alla situazione e al contesto locale, sulla base di dati”.

 

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