Inghilterra, il vaccino è pronto ma il Governo sconsiglia la somministrazione a ragazzi e donne in attesa

Il Regno Unito si appresta a somministrare, già nei prossimi giorni, le prime dosi di vaccino anti-Covid. Eppure il Comitato britannico sulle vaccinazioni, in mancanza di dati ed informazioni certe, sconsiglia di sottoporre al trattamento i ragazzi fino a 16 anni e le donne in gravidanza. 

Gran Bretagna, vaccino sconsigliato a giovani e donne in gravidanza
Boris Johnson/WPA Pool, Getty Images

Come reso noto negli ultimi giorni, il Regno Unito sarà il primo Paese occidentale a ricorrere all’utilizzo di un vaccino anti-Covid. Già a partire dalla prossima settimana, il trattamento messo a punto da Pfizer e BioNTech sarà somministrato ai primi pazienti. Al contrario, la popolazione del resto d’Europa dovrà attendere ancora un po’, visto che l’agenzia europea del farmaco – l’EMA – non ha ancora dato il via libero definitivo a questo né ad altri trattamenti.

Nelle primissime fasi di diffusione, però, la vaccinazione non sarà aperta a tutti i cittadini britannici: secondo quanto riportato dagli realizzati dal Joint Committee on Vaccination and Immunisation – JCVI – e pubblicati sul sito ufficiale del Governo, la somministrazione non è raccomandata in particolare per due categorie ritenute a rischio: i bambini e gli adolescenti fino a 16 anni di età e le donne in gravidanza. Il tema, tra l’altro, è oggetto di aperta discussione anche nel nostro paese, ma i dati finora messi a disposizione dalle case farmaceutiche – come affermato anche dal responsabile scientifico dell’Istituto Spallanzani Giuseppe Ippolito – non permettono di avere certezze in merito.

Secondo il documento pubblicato dal JCVI, infatti, “Non ci sono ancora dati sulla sicurezza dei vaccini per la COVID-19 durante la gravidanza né da studi sull’uomo né sugli animali“. Per questo, in mancanza di informazioni e test, il comitato britannico per le vaccinazioni predica prudenza e “favorisce un approccio precauzionale e attualmente non consiglia la vaccinazione contro la COVID-19 in gravidanza“.

Alla Fase 3 di sperimentazione del trattamento realizzato da Pfizer e BioNTech hanno preso parte decine di migliaia di partecipanti, in gran parte persone comprese tra i 18 ed i 55 anni, in buona salute. Questo – nonostante i risultati clinici sembrino dimostrare che il vaccino sia sicuro ed efficace, dal momento che ha prodotto sulla base di volontari testati solo lievi effetti collaterali – non permette di fare piena luce sulla sicurezza per alcune categorie specifiche che potrebbero essere esposte a rischi di vario genere.

Le donne in gravidanza, in particolare, rappresentano una categoria particolarmente delicata: i dati sulla malattia, infatti, dimostrano che – nonostante il rischio in termini assoluti sia basso – le donne incinte presentano una maggiore probabilità di finire in terapia intensiva, avere bisogno di ventilazione meccanica e addirittura di morire rispetto alle donne fertili ma non incinte. L’auspicio, naturalmente, è che i risultati su ulteriori test possano rapidamente dare il via libera alla somministrazione del trattamento anche alle signore in dolce attesa.

Discorso simile ma non identico a quello che JCVI propone per quel che riguarda bambini ed adolescenti: per queste due categorie, infatti, alcuni dati sono disponibili ma – rimanendo per il momento limitati nel numero – impongono ancora una forte prudenza prima dell’ok definitivo. Soprattutto alla luce delle informazioni che dimostrano come – nella stragrande maggioranza dei casi – bambini e ragazzi, in caso di positività al Covid, sviluppino un’infezione asintomatica o paucisintomatica: “Dopo l’infezione, quasi tutti i bambini avranno un’infezione asintomatica o una malattia lieve. Al momento sono disponibili dati molto limitati sulla vaccinazione negli adolescenti, e mancano i dati sulla vaccinazione per i bambini più piccoli“, si legge ancora nel documento redatto dal comitato britannico. Per questo, almeno in queste prime fasi di diffusione del vaccino, l’ente consiglia di somministrare il trattamento esclusivamente a quei bambini che si possano ritenere esposti ad alte probabilità di contagio e che, inoltre, rischino di contrarre l’infezione in forma grave, “come i bambini più grandi con gravi neuro-disabilità che richiedono cure domiciliari“. A questo, si aggiunge il suggerimento di valutare di caso in caso la strategia da adottare in seguito ad un confronto tra i genitori dei ragazzi ed un medico che possa fornire tutte le informazioni necessarie.

 

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