Ciontoli, contro di lui il ministro della Difesa

La ministra della Difesa Elisabetta Trenta ha chiesto che Ciontoli non venga reintegrato nelle forze dell’ordine.

Trenta: vicina ai genitori di Marco

Caso Vannini: non si placano le polemiche sulla sentenza che ha ridotto ad Antonio Ciontoli, la pena a soli 5 anni di reclusione. Dopo le parole del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, anche la ministra della Difesa Elisabetta Trenta prende la sua posizione, chiedendo che Ciontoli, maresciallo della Marina in servizio al Rud, raggruppamento unità difesa dei servizi segreti, non venga reintegrato, come riportato da Dire. “Non posso entrare nei meriti della sentenza giudiziaria, poiché esula dalle mie competenze e prerogative, ma una cosa la posso fare”, spiega la Trenta, “il mio impegno, il mio massimo impegno, fin quando sarò io a guidare il ministero della Difesa, affinchè al signor Ciontoli non sia concesso il reintegro in forza armata. Ho già in questo senso dato disposizioni”.

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Anche se l’avvocato di Ciontoli aveva parlato della sentenza come una vittoria del diritto, non pare proprio essere così. La La Trenta, oltre a esporsi contro l’epilogo di questa vicenda, che sembra ora più che mai essersi riaperta, ha anche espresso la sua vicinanza ai cari e alla figlia di Marco, comprendendo il loro dolore e la loro rabbia. Anche il Sindaco di Cereveteri, giorni fa, si era espresso contro la sentenza, esprimendosi in modo non pacato sul Tricolore.

La rabbia dei genitori

La lettura della sentenza ha suscitato l’ira di Marina, la mamma di Marco, e di Valerio, il padre, oltre che dei presenti in aula e del web. “I giudici non hanno letto gli atti, o non li hanno considerati. Non può essere mancata la dole, non si può parlare di omicidio colposo. Il processo doveva finire con la telefonata al pronto soccorso. Hanno ucciso Marco per la seconda volta”, ha detto il padre.

Determinante, per il processo, è stata l’aggravante della dole, che sarebbe mancata. Secondo la sentenza, infatti, il colpo sarebbe partito solo per caso, senza intenzionalità. Ma le modalità dell’omicidio sono ancora oscure. Non si sa cosa sia stato fatto in quelle ore, con esattezza. Lo stesso Ciontoli ha fornito diverse versioni, tutte non concordanti l’una con l’altra. E, ad ogni modo, se anche il colpo fosse partito per sbaglio, è l’omissione di soccorso ad essere stato determinante. Le indagini effettuate, e le perizie mediche, hanno stabilito infatti che il ragazzo si sarebbe potuto salvare. Ma le due chiamate al 118, dopo circa tre ore dal colpo sparato, sono state letali. La prima, annullata. La seconda, parlava di un foro procurato da un pettine. Intanto, Marco è stato lasciato morire, mentre i componenti della famiglia decidevano cosa fare e cosa dire.

Su questo punto si concentra la rabbia di mamma Marina e papà Valerio, che in Tv, a Le Iene, sui giornali, appaiono distrutti. “Sopravviviamo“, dicono, “da quando nostro figlio è stato lasciato morire come un cane. E i Ciontoli? Neanche una forma di dispiacere. Sono scappati via da qui perché additati come assassini”.

E non credono minimamente a quanto raccontato dalla famiglia: “La versione del Ciontoli è falsa, forse c’è stata una lite. Mio figlio voleva entrare nelle forze armate e lui aveva sempre detto di aiutarlo. Poi ci siamo rivolti a mio cognato. Questo potrebbe essere un movente. Tutto il resto, sono solo  bugie. Marco non avrebbe potuto mai fare il bagno con dentro il padre di Martina. Forse non era neanche in bagno. E poi, il sangue. Ne ha persi due litri ma in casa loro neanche una traccia.”

Non tornano, nelle ricostruzioni, neanche i momenti successivi allo sparo. L’accusa di Ciontoli si ferma soprattutto su questo punto: l’omissione di soccorso, in questo caso, voluta. Ma, secondo la sentenza, questo non conta. E, mamma Marina, forse, non sbaglia quando dice che quelle ore sono servite solo a studiare un piano per discolparsi. Probabilmente, ha detto la donna, avrebbero anche fatto sparire il corpo di Marco se i vicini non avessero sentito lo sparo.

Ora, i genitori non hanno più parole: “Non sono umane delle persone che pur di salvarsi la pelle fanno morire un ragazzo così. Il loro unico problema era che Marco non parlasse. E ci sono riusciti in un modo o nell’altro evidentemente. Marco non era come loro, Antonio era spavaldo e metteva il  suo tesserino del ministero dell’Interno davanti a tutto.”

Una vicenda triste, poco felice, che lascia dubbi e perplessità sul ruolo corretto che può fare la Giustizia. “Adesso, continuiamo a lottare“, ha detto Valerio Vannini, “Vogliamo la giustizia che non è stata fatta”.

Chiara Feleppa

Fonti: Dire, Le Iene

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