Taranto, i terminal dati per 49 anni ad una società turca. E si scopre che dietro c’erano i cinesi

Attorno al porto di Taranto si concentrano le attenzioni contrapposte della Cina e della Nato. Al di là degli interessi commerciali, testimoniati dall’attenzione del Ministro degli Esteri Di Maio sulla Via della Seta, la posizione strategica della città lascia intravedere interessi geopolitici che coinvolgono addirittura i servizi di intelligence internazionali.

Si torna a parlare, e tanto, di Taranto. Una città difficile, schiacciata ormai da anni da un conflitto logorante che vede in contrapposizione la necessità di lavorare e la tutela della salute, con il gigante siderurgico ex Ilva – ora Arcelor Mittal – a segnare l’andamento della vita cittadina. L’enorme fabbrica, grande due volte la città, quasi non esiste più: le ciminiere di quello che era il più grande impianto siderurgico d’Europa – e che ora rappresenta motivo di paura e di apprensione per i tarantini, con l’inquinamento che uccide le persone e con cinquemila dipendenti su 8.200 costretti in cassa integrazione – rimangono lì, imponenti, affacciate su una città fondata nell’ottavo secolo avanti Cristo ed affacciata sull’omonimo Golfo, in una posizione strategica: quella di punto di collegamento tra l’Europa e l’Oriente, come testimoniano anche gli accordi sulla nuova Via della Seta chiusi nel 2019 dal Ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Una posizione che attira l’attenzione delle grandi potenze mondiali che, sul piano geopolitico, giocano una delicatissima partita a scacchi.

In questo contesto Taranto torna al centro dello scacchiere, grazie ad uno dei porti più importanti del Mediterraneo, finito nel mirino degli interessi cinesi ma storicamente legato alle attività della Nato. La Marina Militare ha da oltre un secolo un legame fortissimo con la città: il porto pugliese rimane fondamentale come punto di appoggio per le navi che vi stazionano, o che entrano in bacino per i lavori da svolgere in Arsenale e, soprattutto, dal punto di vista logistico: elemento tutt’altro che secondario per l’Alleanza Atlantica, che non a caso conserva la possibilità di far attraccare a Taranto le proprie navi, oltre che di utilizzare il centro pugliese come sede per il monitoraggio del Sud Mediterraneo.

Un’importanza ben nota anche al nostro Governo, se è vero che lo scorso 12 ottobre una folta delegazione dell’Esecutivo – di cui facevano parte, oltre al Premier Giuseppe Conte, anche il sottosegretario a Palazzo Chigi Mario Turco e ben sette ministri – si è recata a Taranto per una visita ufficiale che dimostra il grande valore che Taranto ricopre da diversi punti di vista: quello economico – con in ballo anche la delicatissima partita dell’Ilva; quello legato all’occupazione, nervo scoperto cittadino; infine, ancora una volta, quello strategico, visto l’intreccio di interessi che si sta sviluppando attorno al porto tarantino.

Basti pensare che un anno fa è stato deciso di affidare – per i prossimi 49 anni – la gestione del terminal contenitori ad una società turca, la Yilport Holding, che – secondo quanto segnalato da un’informativa del servizio di intelligence estera Aise – sarebbe socia in affari della compagnia di Stato cinese Cosco. Se a questo si aggiunge che è in via di definizione un altro affare – che prevede l’affidamento dell’area portuale dell’ex yard Belelli – di oltre 220 mila metri quadrati – al Ferretti Group, controllato all’85% dai cinesi di Weichai Group, ecco che le antenne delle potenze occidentali si drizzano, captando qualcosa di potenzialmente preoccupante.

Gli accordi con i gruppi cinesi, spiega il Presidente dell’Autorità portuale di Taranto Sergio Prete, garantiscono alla città “investimenti e lavoro”, fondamentali più che mai ora che il polo siderurgico è in declino e – nonostante l’interesse strategico nazionale garantito negli anni dai vari Governi succedutisi nel tempo – sempre più abbandonato a se stesso. Si tratta di “occasioni importantissime per il nostro porto e per il futuro di Taranto”, afferma Prete. In effetti, appare impensabile, per la città, rifiutare un’operazione come quella dello yard Belelli, capace da sola di mettere in campo un centinaio di milioni di euro e 400 posti di lavoro e condotta, sottolinea ancora il presidente dell’Autorità portuale, nella piena legittimità, seguendo “le regolari procedure per l’assegnazione” e assicurandosi che “le attività che Ferretti svolge non sono incompatibili con la presenza della base militare nelle vicinanze”. Il problema, però, rischia di essere più ampio. Lo lascia bene intendere lo stesso Prete quando, cercando una motivazione per le grandi polemiche seguite all’annuncio dell’arrivo del Ferretti Group, dice: “se si decide che a Taranto – in considerazione della presenza della base militare e di quella Nato – non è possibile l’insediamento di determinate imprese a capitale estero si dovrebbe pensare a un risarcimento per perdita di chance del territorio“.

Un parziale risarcimento, intanto, sembrerebbe essere stato garantito all’altro attore in scena in questo confronto: la Nato. Il Governo ha infatti garantito lo stanziamento di 200 milioni per l’ampliamento della stazione navale Mar Grande. Un’iniziativa volta a sostenere le necessità della Marina Militare e destinata, di conseguenza, ad avere ricadute positive anche sulle attività dell’Alleanza Atlantica. L’operazione, non a caso, è stata interpretata da diversi osservatori come un tentativo di rassicurare gli Stati Uniti dopo la massiccia crescita della presenza cinese nel porto.

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