“Se rifiuti la vaccinazione c’è il licenziamento” dice il giurista Pietro Ichino

Il giurista ed ex Senatore Pietro Ichino è convinto della possibilità per i datori di lavoro di procedere al licenziamento dei dipendenti che rifiutino il vaccino anti-Covid.

Il giurista Pietro Ichino "Se rifiuti il vaccino puoi essere licenziato"
Roberto Speranza/Facebook Roberto Speranza

Un datore di lavoro ha la possibilità di licenziare il dipendente che si dovesse rifiutare di sottoporsi alla vaccinazione anti-Covid. Ne è convinto Pietro Ichino, giurista ed ex Senatore del Partito Democratico e di Scelta Civica, secondo il quale l’articolo 2087 del codice civile “obbliga il datore di lavoro ad adottare tutte le misure suggerite da scienza ed esperienza, necessarie per garantire la sicurezza fisica e psichica delle persone che lavorano in azienda“. Una circostanza che, secondo l’ex esponente del partito di Mario Monti, costringerebbe il datore di lavoro non soltanto ad imporre la vaccinazione ai dipendenti. Una posizione simile a quella espressa nei giorni scorsi da un altro giurista – e magistrato – come Raffaele Guariniello, altrettanto convinto della legittimità di eventuali licenziamenti ai danni di dipendenti che rifiutino di sottoporsi alla vaccinazione.

Ichino, intervistato da Il Corriere della Sera, chiarisce che il lavoratore non sarà costretto ad accettare il vaccino, e che chiunque potrà rifiutarlo, “ma se questo metterà a rischio la salute di altre persone, il rifiuto costituirà un impedimento oggettivo alla prosecuzione del rapporto di lavoro“, con la conseguenza di un licenziamento immediato. Il giurista è infatti convinto che la protezione di un legittimo interesse personale – quello di non sottoporsi al trattamento vaccinale – ceda di fronte alla protezione della salute degli altri dipendenti, che pure rimane tutelata dall’obbligo, già in vigore, di indossare la mascherina e di rispettare le regole sul distanziamento.

Neppure l’articolo 32 della Costituzione, che pure tutela esplicitamente la libertà di sottrarsi ai trattamenti – salvo disposizioni di legge – rappresenterebbe per il giurista un ostacolo ai licenziamenti: secondo Ichino, infatti, la norma in questione sancirebbe il principio di protezione della salute di tutti e, solo secondariamente, la libertà di scelta e di rifiutare eventualmente le cure. “Ma quando la scelta di non curarsi determina un pericolo per la salute altrui, prevale la tutela di questa“. Alla luce di queste valutazioni, conclude Ichino, “il datore di lavoro può condizionare la prosecuzione del rapporto alla vaccinazione. E altrettanto possono fare le compagnie aeree, i titolari di ristoranti, o di supermercati“.

In realtà, la tesi sostenuta dall’ex Senatore è largamente contestata e solleva più di una questione quantomeno controversa: prima di tutto, si pone un problema legato al fatto che, nel caso del vaccino anti-Covid, la somministrazione del trattamento non spetti al datore di lavoro ma, come stabilito dal piano vaccinale, sia gestita dalle autorità sanitarie. Attualmente, poi, la vaccinazione contro il Coronavirus non è stata inserita dal Governo tra quelle obbligatorie, altro elemento che appare apertamente in contrasto con la teoria di Ichino. Inoltre, sempre sulla base delle regole attualmente vigenti, nessun cittadino è tenuto – per il momento – a dichiarare pubblicamente se abbia ricevuto la vaccinazione o meno.

A questo si aggiunga che, salvo nei casi in cui si svolgano mansioni specifiche con standard elevato di sicurezza sanitaria, non si può considerare la vaccinazione obbligo direttamente connesso il lavoro. A testimoniarlo, il caso di un’infermiera siciliana cui era stata annunciata la sospensione dal lavoro in seguito al suo rifiuto di sottoporsi al vaccino antinfluenzale. La donna aveva presentato un ricorso davanti al Tribunale del Lavoro che aveva annullato la sospensione e imposto all’assessorato alla Salute un risarcimento di 900 euro in favore dell’infermiera. La decisione si è basata sul fatto che l’obbligo di vaccinazione antinfluenzale per il personale medico derivi da una decisione della giunta regionale siciliana, pur non rientrando nelle sue competenze. Difficile che tale responsabilità, esplicitamente riservata dalla Costituzione alla legge ordinaria, possa ricadere sulle spalle di un singolo datore di lavoro.

 

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