Governo promesse e parole: la mascherine a 50 centesimi sono ancora introvabili

Sembra esserci un nuovo accordo per la distribuzione di altri 10 milioni di mascherine alle farmacie, che verrebbero vendute a un prezzo calmierato di 50 centesimi più Iva. La Fase 2 è iniziata da qualche giorno, eppure i problemi sembrano essere ancora evidenti. Le mancanze, anche. Mentre le parole e le promesse sono tante. 

conte mascherine introvabili - Leggilo

I dispositivi di protezione individuale avrebbero dovuto essere un alleato nella fase 2 dell’emergenza, quella di convivenza con il virus. Eppure, le mascherine continuano ad essere una controversia aperta, tra le discussioni sui prezzi, le truffe, e l’irreperibilità delle stesse. Alla vigilia della ripartenza, il 3 maggio, il Commissario Domenico Arcuri aveva promesso la consegna in tempi brevi di circa 13 milioni di mascherine al prezzo calmierato di 50 centesimi più Iva, per un totale di circa 60 centesimi. Eppure, ad oggi, le mascherine a 50 centesimi sono ancora difficilmente reperibili in gran parte del Paese. Secondo l’ Ansa, dopo un primo disaccordo tra distributori e farmacie, sarebbe stato trovato un accordo, che dovrebbe essere portato a termine nelle prossime ore da Arcuri, Federfarma e l’Associazione distributori di farmaci.

Dopo l’annuncio del prezzo dei dispositivi, erano scattate le proteste: gli importatori hanno bloccato le consegne, preferendo destinare le mascherine su altri mercati dove i margini di profitto sarebbero più grandi. A questo si era sommata una certa reticenza da parte della grande distribuzione di vendere le mascherine a un prezzo sconveniente. Infatti, il ricavo per le farmacie sulla vendita di mascherine è di circa 2 centesimi ad unità. Oltre al problema del prezzo, c’era quello della mancata distribuzione delle mascherine: i distributori – informa Open – avrebbero ammesso di aver sovrastimato il numero di mascherine disponibili, che sarebbero circa un quarto di quelle inizialmente promesse. Inoltre, avrebbero richiesto una sanatoria sulle mascherine attualmente non a norma. Non è ancora chiaro però, come siano stati superati i problemi legati alla fornitura.

Dopo la querelle legata all’eventuale truffa di Irene Pivetti, il Codacons ha realizzato una indagine sui guadagni dell’Erario derivanti dalla mancata eliminazione dell’Iva sulle mascherine. Erano stati il Premier Conte, il ministro dell’Economia Gualtieri e il commissario Arcuri a dare l’annuncio dell’azzeramento dell’imposta sul valore aggiunto su un bene necessario e il cui utilizzo è, tra le altre cose, obbligatorio. Secondo la Codacons, riferisce Il Giornale, lo Stato starebbe incassando sull’emergenza Coronavirus circa 4,8 milioni di euro al giorno solo per l’Iva sulle mascherine versata dai cittadini. Ogni giorno, nello specifico, il 22% su 40 milioni di mascherine chirurgiche vendute a 0,61 euro e 1 milione di ffp3 a 2,5 euro.

Il fabbisogno quotidiano nel nostro Paese sarebbe infatti pari a 40 milioni di mascherine chirurgiche e 1 milione di mascherine ffp3. Di conseguenza, “l’Erario incassa ogni giorno almeno 4,8 milioni di euro grazie all’Iva sulle mascherine, circa 57,6 milioni di euro complessivi dal 26 aprile ad oggi”, scrive la Codaconds. Cifra che cresce esponenzialmente per ogni giorno di ritardo nel taglio dell’Iva. Iva che, a detta di molti, non avrebbe dovuto esserci. Secondo Carlo Rienzi, presidente di Codacons, “il Governo ha mentito agli italiani”. Infatti, non c’è stato alcun taglio dell’Iva sulle mascherine: e si crea un cortocircuito. Da un lato i cittadini sono obbligati per legge o per paura a comprare e indossare le mascherine; dall’altro lo Stato guadagna su tale obbligo. L’organizzazione ha richiesto allo Stato di restituire ai cittadini l’Iva intascata sulle mascherine. Il rimborso potrebbe avvenire sotto forma di bonus alle famiglie più bisognose o come prestito a fondo perduto rivolto alle imprese in difficoltà a causa dell’epidemia.

Immuni, un app che non funziona

Un altro alleato nella Fase 2 avrebbe dovuto essere l’app Immuni. Carlo Alberto Carnevale Maffè, membro della task force interministeriale Data-driven, intervistato da Tpi ha giudicato l’intervento del Governo sul contact tracing digitale insufficiente. Sull’azione pratica e sul vantaggio che sarebbe potuto derivare dall’utilizzo dell’app, sarebbero prevalsi i timori sulla privacy. Secondo l’esperto, per quanto la privacy sia importante, bisogna puntare ad un modello efficace. Tra l’altro, l’app Immuni non sarebbe stata neanche raccomandata totalmente dalla task force, in quanto considerata “inefficace, imprecisa, insufficiente“. Il processo di contact tracing digitale, nazionale ed europeo, avrebbe dovuto saldarsi con quello locale, fatto manualmente. Ma, ad oggi, i due sistemi sono disconnessi e  privi di senso. “Alle spalle ci deve una struttura sanitaria – dice Maffè – Se manca questo elemento lo Stato viene meno a una promessa, che è quella del tampone e della cura”.

Insomma, il Governo non starebbe seguendo la strada giusta e invece di proteggere i cittadini avrebbe preferito proteggere se stesso dalle potenziali critiche sulla privacy. “Qui manca la leadership. Prendersi la responsabilità di spiegare che in certi momenti di crisi vanno prese certe decisioni”, dice l’esperto secondo cui i tempi sono strettissimi, mentre queste cose sono indispensabili. “Tutti dobbiamo avere la app perché non averla vuol dire disprezzare la salute pubblica, vuol dire mettere a rischio gli altri”, sostiene il membro della task force. E’ stato anche impedito l’utilizzo dei dati di localizzazione: significa rendere impossibile trovare i contatti di secondo e terzo livello, che sono importantissimi. L’applicazione potrebbe insomma velocizzare i tempi e gli effetti, aumentando l’efficacia e tenendo sotto occhio i nuovi eventuali focolai. “Con l’aiuto della tecnologia puoi avere le informazioni in 10 minuti”. Dobbiamo insomma scegliere: da una parte ci sono responsabilità, cultura, consapevolezza; dall’altra gelosia, opportunismo, cinismo, calcolo politico.

Fonte: Il Giornale, Open, Ansa, Tpi

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