Giuseppe Conte il premier che si dimette ma non vuole andarsene

Giuseppe Conte. Forse il nodo su un possibile governo di legislatura è proprio sul suo nome. Il Presidente del Consiglio dimissionario sembra uscire indenne dalla surreale crisi di mezza estate voluta da Matteo Salvini: è pacato, istituzionale, signorile, distaccato. Caratteristiche che ne fanno il premier ideale, per alcuni, con consensi in ascesa. Ma la sua figura è, per certi aspetti, tutt’altro che convincente. E per molti altri sconveniente, a dispetto di una signorilità, “politica”, più apparente che reale.

Giuseppe Conte la scorrettezza - Leggilo

Giuseppe Conte dice di non ambire a nulla, solo al bene del Paese. Dice che non contano i nomi ma i programmi. Parole misurate e pensate, come lo sono state, dalle prima all’ultima sillaba, quelle del discorso con cui si è presentato dimissionario in Senato. Lì Conte ha voluto sottolineare la propria “correttezza istituzionale” nei modi e nella sostanza, nella misura in cui accusava il vicepremier della caduta del Governo. Una caduta a cui lui ha dato il colpo finale mostrando a suo dire “il coraggio” al leader leghista. Frase studiata a tavolino, anche questa. Ma qualcosa in Giuseppe Conte, nella felpata messa in scena di sé stesso come bussola per uscire dalla crisi e costruire un nuovo governo, non torna.

Iniziamo dalle questioni di principio, dunque. In termini di “lealtà politicaGiuseppe Conte non ha nessun titolo per ambire ad un nuovo incarico, a maggioranza variata, per portare a termine la legislatura. Non ha titolo perché egli ha fatto il proprio ingresso a Palazzo Chigi a seguito dell’investitura dei due azionisti di maggioranza, Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Prima era un perfetto sconosciuto, in termini politici. Durante la laboriosa gestazione del Governo Lega M5s egli è diventato un premier di garanzia, espressione di entrambe le forze politiche, con un ruolo ed un profilo ben definiti. Venuto meno il sostegno di una di essa Giuseppe Conte non doveva far altro che trarne le inevitabili conseguenze, senza troppi voli pindarici, j’accuse o paternali. E invece no. Il premier sfiduciato da Salvini sottolineava immediatamente il “calcolo politico” che avrebbe causato la mossa del leader leghista. E già in quel momento si sentiva aria di resa dei conti. Un passo compiuto con freddezza e signorile ferocia dal Premier durante il proprio intervento in Senato.

Un intervento d’altro profilo, hanno commentato in molti, abbagliati più dalla forma che dalla sostanza. Ma è stata bigiotteria, a nostro avviso, scambiata per oro a causa di questi tempi dove un minimo di eleganza esteriore viene facilmente fraintesa per senso del limite, rettitudine, signorilità “interiore”. Giuseppe Conte ha accusato Salvini con una rabbia che sembrava provenire dagli scranni dell’Opposizione. E’ stato un continuo togliersi i sassolini dalle scarpe, la lenta, pragmatica rivelazione di un’insofferenza tenuta a freno per mesi, la pubblica denuncia di una rabbia e perfino di un disprezzo non più contenibili. Non c’è stato niente di signorile, in questo, se non la forma.

Il Premier Conte è un avvocato e il primo compito di un legale è quello di difendere le ragioni del proprio assistito, anche le ragioni più indifendibili. La propria etica è lì, piaccia o meno. Conte non è il legale di Salvini, certo, ma con altrettanta sicurezza si può dire che è l’interprete, almeno formale, di un’esperienza di governo voluta anche da Salvini. Nel proprio discorso al Senato l’avvocato Conte ha dimenticato questa stoica difesa dell’indifendibile – l’errore del vicepremier – così come ha dimenticato le criticità dell’Esecutivo, in tutte le sue componenti, che hanno portato alla rottura. Il premier Conte non poteva e non doveva permettersi un intervento della natura di quello proposto in Senato. Il vicepremier Salvini aveva facoltà di rompere l’alleanza di Governo, pagandone dazio. Stessa facoltà l’aveva Luigi Di Maio, idem. Ma il Premier Conte poteva e doveva concedersi molto meno. Era tenuto a fare un bilancio accurato dell’esperienza di Governo, niente di più. Peraltro, la disistima palesata nei confronti del vicepremier non ci fanno stimare proprio colui che, per mesi, ha provato nei confronti del vicepremier un tale disprezzo. Perché in tal caso avrebbe dovuto rompere lui, per dignità. E invece si ha come l’impressione che il Premier Conte la dignità se la sia tenuta in tasca, tirandola fuori quando più faceva comodo.

Avrebbe potuto dimettersi, Conte, nel momento icastico in cui il Movimento 5 Stelle votava contro il progetto TAV screditando platealmente la linea politica del Premier che sostiene quel progetto. L’impressione è che l’inquilino di Palazzo Chigi il treno per la credibilità  e la dignità politica l’abbia perso in quel momento, traendo le conseguenze di quel voto solo in privato. Il “coraggio” e la coerenza per dimettersi non le ha trovate allora. Certo avrebbe significato svelare le contraddizioni dell’Esecutivo e, peggio, addossarne parte della responsabilità ai 5 Stelle. L’infedele patrocinio dell’avvocato Conte ha preferito prendere tempo, in attesa di un diversivo, di un altro momento propizio. Ed eccolo lì in Senato, pochi giorni dopo, ad addossare pubblicamente su Salvini la colpa della crisi durante un intervento abile, per i miopi, ma non meno ipocrita e indegno.

Conte ha giocato a strappare consensi alla parte più ampia possibile del proprio uditorio: più che la rendicontazione di una crisi è stata la ricerca di un consenso “politico” nella prospettiva di un’investitura a breve, mentre fingeva di lasciare. I fatti e le dichiarazioni successive avvalorano questa tesi.

Giuseppe Conte ha dato lo strappo finale al Governo, proprio quando Salvini aveva deciso di ritirare la sfiducia. Perché? Dignità diranno alcuni, o sfinimento. Può darsi. Ma la storia della politica insegna che difficilmente si rinuncia ad un posto al sole se non si ha un ragionevole progetto di tornarci a breve. Conte avrebbe potuto ricucire in extremis, pretendere il mea culpa di Salvini, chiedere una pattuizione aggiuntiva al contratto di Governo in cui fossero sottolineate e garantite proprie prerogative e competenze e limitata l’esuberanza destabilizzante del leader leghista. Poteva rafforzare la propria centralità e andare avanti. Ha preferito strappare, definirsi “coraggioso” e simulare scatti d’orgoglio. La scelta potrebbe essere nobile, la messinscena credibile se, nel medesimo istante, Conte avesse annunciato il ritorno alla professione forense e all’insegnamento. In quel caso chapeau. Perché lo schiaffo a Salvini sarebbe stato, a quel punto, definitivo. Etica o non etica.

E invece no. Conte non si ritira affatto. Il suo diventa il nome su cui punta Di Maio, il nome su cui potrebbe rompersi la trattativa con il Partito Democratico che, non ha torto, rileva più di un’incongruenza nella richiesta di un Conte bis. E allora qualcosa non torna. Se l’esperienza di Governo è da abiurare, se è importante portare a termine la Legislatura senza andare al voto come sottolinea il Premier dimissionario perché Conte, il leale signorile e spassionato Conte, accetta che sul proprio nome salti un’intesa nell’interesse del Paese? Ha detto che contano i programmi e non le persone. Parole. E in politica le parole, anche quelle dette con eleganza, contano poco. Lui resta lì, in gioco, ben disposto a fare il garante di un nuovo Governo.

Qualcosa stona, nel premier dimissionario che vuole tornare a fare il premier. E la prima cosa che stona è proprio l’abilità, l’abnegazione, da garbato opportunista, con la quale vuole passare in pochi giorni da Premier di un governo sovranista e populista a Premier espressione di una maggioranza di tutt’altro segno, senza chiedere il mandato agli elettori. Una maggioranza che dovrà trovare la quadra con non meno difficoltà di quelle avute con la Lega. Due temi su tutti: Tav e Bibbiano. Ma certo il futuro premier saprà come ingoiare fango con modi signorili e cavarsela, mentre pensa ad un partito tutto suo, in stile Monti. O forse penserà qualche altra mattata, tipica delle persone ragionevoli finite in un posto per caso che, ostinatamente, continuano a credersi indispensabili. Vedremo a breve chi vincerà la scommessa. Certo se avessimo un penny da buttare non punteremmo su un premier che si è sfiduciato da solo. Perché o è un genio o è un idiota che si crede un genio. E non ci risulta essere prossimo dall’essere insignito di qualche onorificenza a Stoccolma, benché forse, in cuor suo creda, ardentemente, signorilmente, gli spetti di diritto. Giuseppe Conte è libero di credersi l’uomo del destino, male che vada un “uomo per tutte le stagioni“. Ma noi ci teniamo il penny.

Fonte: Ansa, Agi, Dire, Vista

 

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