La mani della Cina sul porto di Taranto, testa di ponte per conquistare l’Italia

Gli investimenti cinesi a Taranto rappresentano solo una piccola percentuale delle imponenti attività che la Cina svolge, da anni, nel nostro Paese. Ma il porto pugliese sembra attirare un’attenzione senza precedenti. 

La crescita dell’interesse cinese per il porto di Taranto, con una serie di corposi investimenti che il colosso asiatico sta decidendo di destinare all’infrastruttura pugliese, ha destato non poca attenzione negli ambienti militare e di intelligence occidentali, preoccupati dal fatto che la Cina abbia concentrato i propri interessi sul centro tarantino per ragioni strategiche, più che commerciali.

La convinzione diffusa  è che i cinesi, attraverso queste operazioni, intendano mettere le mani su Taranto, considerata tappa cruciale nel percorso della via della Seta – il gigantesco programma di investimenti infrastrutturali messo in piedi dal colosso asiatico per realizzare collegamenti con l’Europa. Certo, è impossibile non notare come sia singolare la spasmodica attenzione riservata alle operazioni cinesi a Taranto, non certo le prime – né le più rilevanti economicamente – condotte dalla Repubblica Popolare nel nostro Paese. Secondo una ricerca condotta dal Centro Studi “Eurasia-Mediterraneo”, la Cina mantiene importanti rapporti con le autorità portuali italiane già da molto tempo: l’Autorità portuale di Genova e la China Communications Costruction company (CCCC), per esempio, si sono accordate per costituire una società comune che si occuperà della realizzazioni di grandi opere nel porto del capoluogo Ligure, tra le quali figurano lo spostamento della diga foranea e l’ampliamento di Fincantieri. In generale, secondo i dati a disposizione, le movimentazioni cinesi pesano, sui porti di Genova e Savona, addirittura per il 30% del giro d’affari complessivo.

Simile anche la situazione di Ravenna, dove è previsto un piano di rilancio del porto con investimenti per oltre 200 milioni di euro e dove, a giugno, i cinesi della China Merchants Industry Technology hanno aperto una sede con un centro di ingegneria navale.  con l’obiettivo dichiarato di acquisire know-how nel settore. Nel periodo compreso tra il 2000 ed il 2017 la Cina ha investito nel nostro paese una cifra vicina ai 14 miliardi di euro – 13,7 – per un giro d’affari che in Europa, nel periodo di riferimento, è inferiore soltanto a quello fatto registrare da Gran Bretagna e Germania.

Eppure, Taranto desta un’attenzione speciale, diversa da tutte le altre situazioni, forse anche perché l’area Belelli – presto sotto il controllo cinese – dista meno di dieci miglia proprio da un insediamento Nato, dal quale partono molte delle principali operazioni che l’Alleanza svolge nel Mediterraneo. Non a caso alla vicenda si è interessato anche il Copasir, richiedendo un dossier dettagliato ai Servizi Segreti.

Anche perché, dietro questa improvvisa crescita di rapporti tra il Porto di Taranto e la Cina, compare la sagoma di Mario Turco, braccio destro del Premier Giuseppe Conte, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e responsabile del Cis – Comitato Istituzionale per l’area di Taranto  – che finanzierà in parte l’investimento di Ferretti Group attraverso un piano di reindustrializzazione e una bonifica da 15 milioni di euro. “Investimenti che serviranno a far rinascere la città”, dice Rinaldo Melucci, sindaco del capoluogo e imprenditore legato proprio al mondo portuale. Soldi che contribuiranno “a compensare quei posti di lavoro che Ilva sta lasciando per strada“, aggiunge il primo cittadino, tutt’altro che spaventato dal nuovo corso cinese cui il porto di Taranto sembra destinato. “Vogliono portare investimenti. E questo a noi serve: si è affacciata anche la Cccc, tra i più importanti gruppi di costruzioni al mondo. Noi siamo qui“.

D’altra parte, in un contesto delicato e fragile come quello tarantino, appare complesso soffermarsi con eccessiva diffidenza sulla provenienza – magari ponendo veti – di chi arriva con l’intenzione di garantire investimenti e lavoro. Lo dimostrano le parole di Marco Avitabile, un ex gruista dell’Italsider. Ogni mattina arriva al porto, osserva il mare e le navi che riposano. “Dicono che ora qui dentro comandano i cinesi. Ditemi dove posso trovarli, così vado a portare il curriculum di mio figlio“, dice, lasciando bene intendere lo stato d’animo di una città che vede negli investimenti un’occasione di resilienza. E lo conferma anche il presidente di Confindustria Taranto Antonio Marinaro, convinto che a fare la differenza debba essere, più che la provenienza, “la serietà” degli investitori. E, in questo senso, i colossi cinesi coinvolti non dovrebbero lasciare grandi dubbi, a patto che gli accordi vengano siglati in modo da garantire un ritorno economico e occupazionale in favore della città. Un elemento su cui le istituzioni sono chiamate a vigilare in modo rigido.

Ma è evidente che la questione della provenienza – e delle ragioni profonde alla base della decisione cinese – di questi investimenti tornerà a porsi: in un mondo che cambia, con scenari geopolitici in costante evoluzione – e con l’espansione cinese che viaggia veloce verso occidente – Taranto è strategica. Lo sa la Cina, lo sa la Nato.

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