Con lo smart working lo Stato ha mandato i dipendenti pubblici in vacanza, dice Pietro Ichino

Secondo Pietro Ichino, l’epidemia da Coronavirus avrebbe favorito nel settore dell’amministrazione il trionfo dell’opportunismo. L’ex parlamentare del PD è in libreria da qualche giorno con il suo ultimo libro, “L’intelligenza del lavoro”. 

pietro ichino smart working - Leggilo

Alla domanda se la tecnologia faccia bene o male, si può certamente rispondere affermando che i device tecnologici sono stati, in questi mesi, uno strumento indispensabile per proseguire a distanza le attività lavorative. La situazione emergenziale ha portato rapidamente a un’estensione dello smartworking come modalità di lavoro, unica possibile durante la fase acuta di lockdown. Così, se alcune aziende che lo utilizzavano solo per alcuni giorni al mese hanno dovuto incrementarne l’uso, altre hanno dovuto iniziare da zero. Nonostante, come riporta Repubblica, stampanti, computer e accessori informatici hanno fatto registrare aumenti fino al 250% – quindi il lavoro da casa è costato di più a causa dell’acquisto di strumenti di lavoro – di fatto il telelavoro ha permesso di limitare al minimo danni. Tuttavia secondo Pietro Ichino, ex parlamentare del PD e uno dei giuslavoristi tra i più importanti del Paese – nonché commendatore della Repubblica insignito motu dall’ex Presidente Ciampi – non sarebbe proprio così.

Il regime di smart working non sarebbe stato altro che una vacanza retribuita al cento per cento. “Nel settore dell’amministrazione, l’epidemia ha favorito il trionfo dell’opportunismo”, ha detto Ichino intervistato da Libero. Nella funzione pubblica si sarebbe quindi enormemente dilatata la portata del lockdown in modo irresponsabile. Una soluzione, per il professore, sarebbe potuta essere quella di estendere a questi settori il trattamento di integrazione salariale, destinando il risparmio a premiare i medici e gli infermieri in prima linea, o a fornire i pc agli insegnanti, costretti a fare la didattica a distanza coi mezzi propri. Così, però, non è stato. Ora, tutti si attendono un’ondata di licenziamenti a settembre, quando scadrà il divieto di licenziare previsto dai Decreti legislativi varati da Conte. Qualcosa di inevitabile, a cui non si può rispondere con la proroga del blocco che, con l’integrazione salariale necessariamente connessa, genererebbe un incentivo all’inerzia o alle attività pagate fuori-busta. “Meglio lasciare che cessi il blocco e rafforzare il trattamento di disoccupazione e i servizi per l’impiego”, sostiene Pietro Ichino. Anche le prospettive sulla domanda di lavoro non sono rosee. Già prima del lockdown, Anpal e Unioncamere censivano in Italia più di un milione di posti di lavoro qualificato o specializzato permanentemente scoperti, per mancanza di persone adatte a ricoprirli. Se anche questa domanda insoddisfatta si sia ridotta del dieci per cento, basterebbe comunque a dimezzare o quasi la disoccupazione, se fossimo in grado di attivare i percorsi necessari.

“Il problema in Italia? Le tasse”

Percorsi che includono, elenca l’intervistato, servizi efficienti e capillari di informazione; orientamento professionale; formazione mirata specificamente agli sbocchi occupazionali esistenti; controlli a tappeto di qualità; sbocchi occupazionali effettivi. In ogni caso, il divieto di licenziare può fare solo danni: “La sicurezza economica e professionale delle persone non si può garantire ingessando i rapporti, ma solo sostenendole efficacemente nella transizione dalla vecchia occupazione alla nuova”, ha proseguito il dem, la cui impressione è che il Governo stia imboccando la via di un’economia sussidiata più che quella della ripresa delle imprese.  Gli aiuti di Stato, invocati nelle forme più svariate specie durante gli Stati Generali, non funziona in quanto lo Stato non è un imprenditore. Dovrebbe al contrario investire molto di più per innervare il mercato del lavoro dei servizi indispensabili, cioè sulle politiche attive. Il nemico dell’economia sono, secondo Ichino, le tasse alte e le rigidità nel mercato del lavoro.

Un altro problema potrebbe essere il crollo dei contributi, che potrebbe creare un buco di 50 miliardi nel patrimonio Inps. Inoltre, la contrazione impressionante del prodotto interno lordo e la possibile uscita permanente dal mercato di una quota rilevante di forza-lavoro potrebbe infliggere all’equilibrio del sistema pensionistico un colpo durissimo. “Una riforma ulteriore sarà necessaria anche prescindendosi dagli effetti del Covid-19”, ha proseguito l’economista.

Fonte: Libero, Repubblica

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