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Cronaca

Un mese di Coronavirus, i 30 giorni che hanno sconvolto l’Italia

L’Italia fatica ancora a trovare una strategia efficace, lungimirante, che porti il Paese fuori dalla crisi. Eppure sono passati 30 giorni, ma la luce in fondo al tunnel non si vede.

 

 

Continuano a crescere i contagi nel nostro Paese. Ogni giorno, il bollettino quotidiano diramato da Angelo Borrelli, Capo della Protezione Civile, segna un nuovo record di contagi e di decessi. Sembrerebbero ogni volta segnare l’arrivo dei giorni di picco, che però vengono spostati, rimandati di almeno una settimana, perchè quei numeri, già tragici di per sè, secondo molti non rispecchiano la realtà dei contagi, specie in Lombardia. Nelle città metropolitane di Bergamo e Brescia gli scenari sono da guerra: cimiteri chiusi, ospedali ormai saturi che hanno finito i posti letto di terapia intensiva e sub-intensiva, camion dell’Esercito che arrivano in città per prelevare le bare perchè sono ormai intasate le camere mortuarie. Un mese fa non avremmo mai potuto immaginare che l’emergenza divenisse così tanto potente, così incontrollabile. Eravamo sicuri che il virus non ci avrebbe sorpreso, invece è stato proprio quello che ha fatto.

Il primo caso italiano, quello di Mattia, 39enne di Codogno, nella provincia lodigiana, che ha avuto bisogno della terapia intensiva, era già un campanello d’allarme: avevamo sottovalutato il virus, relegandolo ad influenza stagionale. Come ricorda Agi, è poi arrivata la prima vittima, mentre scoprivamo l’esistenza di un altro focolaio, per nulla collegato al primo, a Vo’ Euganeo, in Veneto. Qui è arrivato il primo decesso: Adriano Trevisan, che aveva contratto il virus nel bar del Paese. E ci accorgemmo di un’altra cosa: il virus è molto contagioso e le persone asintomatiche, potenzialmente, potrebbero essere tantissime e portare le cifre del contagio a numeri spaventosi. Al tempo, sembra una vita fa, si diceva che i decessi, compreso quello di Trevisan, interessassero le persone anziane o quelli affetti da gravi patologie. Ci pensò, in un’intervista a Repubblica, Vanessa Trevisan, figlia di Adriano, a ricordarci che dietro quei numeri c’erano spesso padri e nonni: “Adriano Trevisan non è un numero, non è la prima vittima italiana del coronavirus, non è un nome e un cognome sul giornale. Era mio padre, un marito, un nonno. Hanno detto ‘però era vecchio’, come se la sua età dovesse attenuare il dolore che provo, come se la sua scomparsa fosse meno importante”. Gli italiani iniziarono ad avere paura.

Poi casi che via via iniziano a spuntare in tutte le Regioni del Paese, sino al 3 marzo quando si verifica la prima positività in Valle d’Aosta. Le Autorità Sanitarie avvertono il Governo: con questi tassi di contagiosità, la tenuta del Sistema Sanitario Nazionale è in bilico. Arriva il primo Decreto Emergenza del Governo che prevede la chiusura di 11 Comuni, 10 del lodigiano più Vo’ Euganeo. A quel punto si crede che la situazione sia sotto controllo e si inizia ad abbassare la guardia. Il Sindaco Beppe Sala invita i cittadini a non cambiare le proprie abitudini, da più parti arriva il monito di stare tranquilli. Ma i contagi non diminuiscono. Il Ministero della Salute decide di cambiare i protocolli: tamponi soltanto per i soggetti sintomatici, che hanno cioè febbre e problemi respiratori. Ci si accorge che il tasso di mortalità in Italia è molto più alto di quello cinese. Nella notte tra il 7 e l’8 marzo, un incredibile fuga di notizie porta alla pubblicazione della bozza del secondo Decreto Emergenza, anticipando la decisione del Governo di ampliare la zona rossa a tutta la Lombardia, più le 11 provincie confinanti. E’ la notte della grande fuga dalle stazioni di Milano, che costringerà il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, con un discorso al Paese in diretta nazionale l’11 dello stesso mese, ad annunciare misure restrittive per tutto il Paese.

Gli italiani si abituano alle drammatiche notizie, ai bollettini da guerra. Nessun esperto scientifico azzarda più le possibili date del picco, ma tutti convengono che le misure adottate non sono sufficienti e il 3 aprile non è certo una data realistica per l’alleggerimento. Nel mentre l’Italia supera per numero di decessi la Cina, sfonda il numero dei 40mila contagi e registra ogni nuovo giorno centinaia di decessi. Ma una strategia, una guida in tutto questo caos non si vede. Si naviga a vista, cercando di salvare il salvabile: medici mandati in trincea senza protezioni e ospedali lasciati al loro destino. Una situazione insostenibile, che fa chiedere a gran voce misure più idonee al Governo.

 

Fonte: Agi, Repubblica

Pubblicato da
Mario Cassese

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